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Su Ichino, Monti: perché non sono d'accordo con entrambi  (mes #101186)
di Luca Isabella il 26/12/2012 13:47:22

messaggio letto 542 volte
0 risposte

in risposta a Sergio Solimena (mes. #101182)
Ciao Sergio,

Grazie dello stimolo, provo a risponderti punto-punto.

>Luca tu ritieni che le proposte di Monti, ripetute nella sua conferenza stampa, e riprese in parte dagli scritti di Ichino siano chiare? Ho copiato le tue parole “preferisco l'algida e coerente razionalità di Monti” da una tua risposta (mes #101135) e mi piacerebbe capire se è alle proposte, che riporto qui sotto, tu ti riferissi (Proposte Ichino-Monti).

In verità mi riferivo allo stile comunicativo, che, per quanto monotono, personalmente lo trovo chiaro e razionale. Posso non essere d'accordo su quanto detto, ma lo capisco. Invece, sento da anni e anni Bersani e la sinistra in generale e non ho capito nulla. Più che affermazioni generiche, sbuffi e attacchi a Berlusconi non ho sentito. Forse - anzi sicuramente - è un mio limite, ma francamente non mi è chiara per nulla che tipo di politica - anche economica - vorrebbe portare avanti il centrosinistra.

I punti proposti da Ichino (che riguardano esclusivamente il mercato del lavoro, in realtà il tema è molto più ampio, la cosiddetta Agenda Monti lo inquadra meglio) li capisco di più e credo che sarebbero ottimi spunti se non fossimo in Italia. Mi spiego meglio. Fino a quando regna la delinquenza, non ci sono controlli e la giustizia non funziona, tutti quei punti sono pura fantasia. Essi presuppongono una nazione di oneste persone con un gran senso della comunità e con una forte responsabilità individuale - non per niente viene chiamato spesso "il modello scandinavo" - totalmente l'opposto di noi italiani.

Purtroppo, però, il mondo va in una direzione. Noi possiamo cercare di andare controcorrente, certo, ma in un'economia e in una società complessa come quella attuale non credo che schemi rigidi possano funzionare. A sistemi complessi si risponde meglio con schemi flessibili e io preferisco guadagnarmi da vivere in modo flessibile e libero piuttosto che morire di fame e frustrazione in un sistema organizzato. Ma sono scelte individuali.

Con questa premessa, vediamo le proposte, come le ho intese io:

>1) - una drastica semplificazione normativa e amministrativa in materia di lavoro. Un corpus di regole più semplice, più snello, che non sia una barriera ma una carta da giocare con chi vuole investire e creare lavoro nel Paese. Senza perdere niente in garanzie di sicurezza dei lavoratori o tutela dei diritti.

La normativa del lavoro italiana è allucinante. E' nemica dei datori di lavoro, ma anche dei lavoratori. E' frutto di anni e anni di incapacità del legislatore unita a asssurde stechiometrie negoziali. Comunque sia, va sistemata.

>2) - il superamento del dualismo tra lavoratori sostanzialmente dipendenti protetti e non protetti.

Oggi ci troviamo due classi di lavoratori molto diverse, con una serie di sfumature assurde che non sono nè carne nè pesce (es. cocopro). Per quanto mi riguarda, possono rimanere come sono, tanto il lavoratore dipendente a tempo indeterminato andrà naturalmente estinguendosi. Non è che con questo ne sono felice, anzi, ma purtroppo è una forma contrattuale che mal si adatta all'imprevedibilità dell'economia. Nei mercati prevedibili o monopolistici si può pensare a una forma di lavoro di lungo periodo, ma il futuro non è più quello di una volta, purtroppo. Quindi, si dovrà spostare il baricentro del nostro interesse come lavoratori dal datore di lavoro alle proprie competenze. E' un processo di maturazione, un passaggio all'adultità, domandarsi "cosa posso fare io per affrontare questa situazione", invece che chiedersi cosa dovrebbero fare gli altri. Per gli italiani, un passo epocale.

>3) - ridurre a un anno al massimo il tempo medio del passaggio da un’occupazione all’altra rendendo più fluido e sicuro il passaggio dei lavoratori dalle imprese in crisi o comunque meno produttive a quelle più produttive o comunque in fase di espansione.

Secondo me sono fantasie, almeno qui a noi.

>4) - coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel mercato del lavoro.

In via di principio, sono d'accordo.

>5) - spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzioni alla produttività o alla redditività delle aziende attraverso forme di defiscalizzazione, come avvenuto nell’accordo firmato dalle parti sociali nell’ottobre scorso.

Questo fa irritare i sindacati, che perderebbero gran parte del loro potere. Io credo che il rischio di impresa sia soprattutto di chi ha messo il capitale e quindi non è corretto riversarlo sui salari dei lavoratori, se non in mondi molto ideali o realtà piccole. Tuttavia, non credo nemmeno nei premi di produzione dati a pioggia, indipendentemente da ruolo e capacità dimostrate.


>-Punto 2: diversamente dal Punto1, mi sembra generico e pericoloso. Se si volesse rendere il mondo del lavoro ancora più precario, vale a dire se il superamento del dualismo andasse nella direzione del lavoro non protetto avremmo un peggioramento delle condizioni di vita. Le mie ragioni sono semplici. La principale è che l’insicurezza diminuisce la progettualità, favorisce un’opacità e un rallentamento degli scambi e in sostanza rallenta sia la partecipazione sia l’economia.

Personalmente, ho sostituito la parola "precario" con "libero" nel mio vocabolario. E' una distinzione fondamentale: la prima evoca una sudditanza, la seconda evoca attività. Come professionista potrei definirmi l'estremo massimo della precarietà. Invece, mi piace chiamarmi Libero Progessionista, Libero. E riesco a creare grandi progettualità in una maggiore sicurezza. Invece che lavorare per un mono-cliente (come se fossi un lavoratore dipendente), diversifico in un portafoglio di clienti per ridurre il rischio. Lavoro sulle mie competenze, sui risultati e sul valore che porto ai miei clienti. Certo, io sono un lavoratore della conoscenza - tu dirai. Invece, conosco tantissimi lavoratori internazionali che lavorano col cervello e con le mani nei cantieri di tutto il mondo che lavorano tantissimo e guadagnano ben più di me. Hanno dalla loro parte grandi competenze, maturate con studi e sacrifici. Non stanno attaccati alle mammelle di mammà.

>-Punto 4: E’ un punto oscuro. La flessibilità è ovviamente la possibilità di licenziare. Rendere massima questa possibilità significa: licenziare senza regole.
> Altre forme di flessibilità non sarebbero il massimo di flessibilità.

Apprezzo la finezza linguistica. Diciamo che io ho inteso il massimo della flessibilità, rimanendo nei vincoli di quanto espresso negli altri punti. Quindi, credo che debbano esserci delle regole per i licenziamenti, dopotutto ce ne sono anche per i divorzi :-)

> Invece, il massimo della sicurezza economica e professionale significa aver un salario con continuità e corrispondente al proprio ruolo. Oltre a dover essere dignitoso.

Purtroppo il salario lo fa il mercato del lavoro. Se una persona ha basse competenze, non sa fare nulla (come molti giovani), non porta valore all'azienda e quindi verrà pagato poco. Ci sono competenze assai inflazionate che ormai non valgono nulla. Occorre rivedere i percorsi formativi, sbattere fuori i boiardi da scuole e università, dove ci si imbottisce di teorie inutili frutto di qualche studio accademico fuori dal mondo. Ovvio che poi dovrebbe esserci un salario minimo, ma se non ci sono i controlli...

I posti di lavoro si creano con l'energia della voglia di fare. Persone che sviluppano idee nuove e creano le proprie imprese. Persone che hanno voglia di conoscere e lavorare. L'economia assistita dai soldi della collettività prima o poi muore, come un figlio viziato che non ha mai fatto nulla per guadagnarsi da vivere. Più barriere metti, meno imprese verranno fuori.

Da anni con un amico vorremmo aprire una società e far lavorare dei giovani, ma il solo pensiero di cosa andremmo incontro basta a dissuaderci. Se poi dovessi pensare di dover assumere tutti a tempo indeterminato, addio.
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